mar 252015
 
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di Giancarlo Castellani

Fidenza aderisce a “L’ora della Terra 2015”: la grande mobilitazione mondiale del WWF contro i cambiamenti climatici, che si attua con lo spegnimento simbolico delle luci dei monumenti e delle sedi istituzionali. Il Comune di Fidenza, da sempre attento ai temi ambientali, conferma così il suo impegno nella salvaguardia dell’ambiente e nella promozione di un’educazione sostenibile.

L’appuntamento è per sabato 28 marzo alle ore 20.30 quando l’illuminazione pubblica di piazza Garibaldi, piazza Verdi e piazza Matteotti si spegnerà per un’ora. Piazza Garibaldi si animerà già dalle ore 17.00 con uno stand del WWF che darà vita a iniziative di sensibilizzazione e informazione.

Fidenza vuole mandare un messaggio forte sul tema del risparmio energetico, della sostenibilità ambientale e delle energie rinnovabili. Vogliamo che l’educazione sostenibile sia sempre al centro dell’attenzione, dando quella continuità che favorisce una cultura del rispetto ambientale e porta i cittadini ad adottare comportamenti virtuosi.

E’ un’iniziativa nata nel 2007 in Australia e divenuta poi mondiale. Lo spegnimento delle luci di luoghi o palazzi simbolo delle città è un segno di sensibilità e attenzione al problema dei cambiamenti climatici: un fenomeno preoccupante in rapida evoluzione. Per fronteggiarlo dobbiamo impegnarci tutti, partendo dal risparmio energetico e dall’ottimizzazione dei consumi”, ha sottolineato il presidente di WWF Parma, Rolando Cervi.

Protagonisti dell’evento, insieme al Comune e al WWF, saranno gli studenti dell’Itis “Berenini”, che collabora con il WWF di Parma in modo strutturato: “L’itis Berenini ha una lunga tradizione di educazione sostenibile che si concretizza anche con due borse di studio che premieranno due progetti in tema di risparmio energetico, una finanziata dal WWF e l’altra da Azienda Sistema Energia. Il WWF collabora con noi anche in alcune iniziative didattiche che mirano a coinvolgere e sensibilizzare i ragazzi su questi temi”, ha detto il dirigente dell’Itis “Berenini”, Rita Montesissa.

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mar 202015
 
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di Franco Amigoni

“Smart City” è un marchio che ha indubbiamente avuto negli ultimi anni un grande successo. E’ parso a molti che fosse sufficiente utilizzare quel marchio per accedere quasi magicamente alla città futura, a base di tecnologie straordinarie e di soluzioni per tutti. Naturalmente non è così, e il rischio che si è corso è stato quello di delegare nelle capienti mani delle multinazionali della tecnologia gli investimenti urbani.

Al contrario, le tecnologie devono essere soltanto uno strumento per un fine ben più grande, che può essere scisso in tre concetti: inclusione sociale, sostenibilità, sviluppo economico. Sempre di più occorre partire dai cittadini per utilizzare, anche grazie alla tecnologia, l’intelligenza collettiva di un luogo.

A Modena, per esempio, hanno creato un panel di oltre 5mila cittadini, che vengono ascoltati con regolarità su tutti i temi strategici. In molti altri luoghi è rinata negli ultimi anni, con metodologie e strumenti più moderni ed avanzati, quella progettazione partecipata che aveva visto gli albori in Italia negli anni settanta con Renzo Piano e altri. Smussati gli spigoli, con un approccio fortemente multidisciplinare, progettare in modo partecipativo è sempre più un caposaldo dell’azione amministrativa.

Ecco perchè a brevissimo partirà anche a Fidenza un programma dal gruppo consigliare PD fortemente voluto, anche in vista del POC e di altri importanti momenti di scelta per il bene comune, di formazione alla progettazione partecipata, con antropologi, sociologi, architetti, esperti di comunicazione, facilitatori.

Per alcune date che verranno molto presto comunicate amministratori, funzionari comunali, dirigenti, associazioni e cittadini impareranno (o perfezioneranno) gli strumenti per rendere il futuro un posto migliore insieme.

E’ uno dei primi passi, molti altri seguiranno. Il futuro è dietro l’angolo.

mar 172015
 
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154esimo Unità d’Italia, il messaggio del sindaco Massari

Un’Italia che deve ripartire. Un’Italia che può ripartire, soprattutto. Ripartire mettendo tutte le risorse possibili per affermare una comunità moderna, capace di togliere la testa dalla sabbia e di affrontare uno ad uno tutti i suoi problemi cronici. Gli arresti delle ultime ore sono, ancora una volta, lì a confermarlo.

Senza sconfiggere corruzione, illegalità, mafia non andremo da nessuna parte e bisogna che prima o poi cominciamo a dircelo con chiarezza. Far ripartire l’Italia non è solo una questione di Pil o di ripresa economica. Intendiamoci: tagliare la disoccupazione, mettere in condizione le nostre imprese di riprendere a correre, sono priorità vitali.

Ma il Paese serio e moderno che ho in mente – lo ripeto: moderno – sa che non ci sarà misura economica efficace senza aver risolto a monte tutta la sovrastruttura criminale e di scarsa moralità che fino ad oggi ha frenato ogni riforma degna di questo nome, indipendentemente dal colore del Governo che l’ha mandata avanti.

Nelle strade ci servono poliziotti, nelle scuole ci servono docenti premiati per la loro passione civile e non mortificati dal precariato a vita. Nelle case ci servono cittadini con diritti veri da spendere e non giovani ricattabili col contratto precario e privati del diritto a mettersi in piedi una famiglia.

Nella società ci servono più donne: trovo immorale che si dica loro che è più semplice congelare gli ovociti invece che realizzare un Paese in cui si può essere madri e lavoratrici, senza la costrizione umiliante del dover scegliere.

Nei palazzi delle Istituzioni ci serve onestà e meno pressapochismo di quello che riempie le pagine dei giornali, con cronache in cui chi deve vigilare sul comportamento dell’esecutivo – nazionale o locale che sia – tifa, invece, per il fallimento e non per per la ripartenza.

Allora, teniamocelo bene a mente che disonesti e fanfaroni, molto spesso, passano dal voto popolare.

Questo per dire che la scorciatoia del “sono tutti uguali” può essere molto comoda per mondarci la coscienza, ma non sposta di una virgola il problema di un’Italia che è ancora tutta da fare e nella quale i successi e i guai sono un patrimonio collettivo, costruiti con l’impegno di tutti o, per contro, con il menefreghismo generale.

Qualcuno scomoda concetti “alti” come un nuovo “patto di cittadinanza”, qualcuno vola più terra terra e si aspetta, semplicemente, che le Riforme siano pagate col contributo e la cura dimagrante di tutti quegli enti inutili che non hanno ancora dato alla causa.

In questo progetto per la nuova Italia, mettiamo, quindi, un bel punto fermo: 8.000 Comuni sono troppi, gestiamo con più velocità le fusioni e le unioni, ma mettiamoci in testa che dai Comuni passano servizi, opportunità, crescita. Dai Comuni e dalla loro possibilità di investire dipende tanta parte del nostro futuro.

Rimbocchiamoci le maniche e andiamo avanti a capo chino.

In questo 154 anniversario dell’Unità è il regalo più bello che possiamo farci e che possiamo fare all’Italia.

mar 102015
 
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Sostenere la ripresa economica e con essa dell’occupazione è un compito che deve mobilitare tutto il Paese, dal Governo fino ai Comuni, avendo ben chiari i campi d’azione di ciascuno. Gli spot, le passerelle, le misure un tanto al chilo per farsi belli sul giornale, non ci interessano.

Le misure possibili sono due: la distribuzione di (pochi) soldi a pioggia, con dei voucher che sanno molto di assistenzialismo. Oppure, un progetto che crea occupazione mettendo insieme più iniziative che vanno dal sostegno economico in cambio di una prestazione lavorativa concordata e arrivano fino ad incentivare le imprese ad assumere seguendo criteri innovativi.

Come consiglieri di maggioranza sosteniamo la scelta di campo netta per le riforme che sta portando avanti l’Amministrazione Massari.

Del resto, il nostro fiore all’occhiello sarà il riuso produttivo dell’area ex Cip-Carbochimica: in quella che era una delle aree più inquinate d’Italia, sta procedendo – unico caso in Italia – la bonifica e, una volta completata, sui terreni ripuliti il Comune sosterrà le imprese con no tax area, forme innovative di concessione delle superfici in cambio anche del sostegno alla buona occupazione.

Oggi presentiamo, intanto, 5 azioni mirate per dare una risposta immediata a chi è senza lavoro.

1) Il Comune di Fidenza presenterà un progetto entro fine mese di circa 80 mila euro partecipando al bando della Fondazione Cariparma per ricollocare chi ha perso il lavoro a causa della crisi.

2) Nei capitolati per la gare di appalto per la manutenzione della città sono stati inseriti nuovi requisiti sociali che introducono per la prima volta forme premiali nel punteggio che viene attribuito alle imprese se:
- assumono persone in condizioni molto svantaggiate (senza lavoro da almeno 24 mesi)
- assumono lavoratori svantaggiati ultra 50enni espulsi dal mondo del lavoro o disoccupati con una o più persone a carico
- prevedono forme premiali per l’assunzione di persone svantaggiate in cooperative sociali di tipo B

3) I nuovi appalto pluriennali di manutenzione della città – aggiudicati tra giugno e settembre – escluderanno l’affidamento col massimo ribasso, attribuendo all’offerta tecnica comprensiva dei requisiti sociali di cui sopra un punteggio prevalente. Tradotto: la cura di Fidenza sarà affidata a chi presenterà la qualità migliore e promuoverà il sostegno all’occupazione

4) La legge di stabilità 2015 ha finanziato 100 milioni di euro per interventi sui lavori socialmente utili, previ accordi tra Comuni e Regioni. Risorse che il Comune cercherà di intercettare con un piano ad hoc da discutere in Regione, appena sarà definito il quadro operativo.

5) Il Comune sta ridefinendo un insieme di affidamenti che si sono ripetuti sempre uguali negli ultimi anni (per prestazioni come la portineria in orari extra ufficio, i servizi di affissione pubblicitaria ecc.) per unire la sostenibilità economica a precise finalità di sostegno all’occupazione.

 Un quadro d’insieme che va molto oltre la logica del voucher, comunque bocciata da tanta parte degli interlocutori anche sindacali coi quali l’Amministrazione si sta rapportando. Un quadro, peraltro, che in Consiglio comunale l’opposizione si è rifiutata di ascoltare per inscenare il solito teatrino, rifiutando di contribuire a scrivere insieme una pagina concreta di sostegno a chi ricerca un lavoro.

mar 092015
 
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A contributo e contesto per le scemenze che ci tocca ascoltare in Consiglio Comunale, sulla necessità di limitare il sostegno a chi può dimostrare di essere “veramente fidentino e di esserlo da almeno due anni” (altrimenti niente sostegno), perchè gli altri, “quelli che dormono sulle panchine, non sono igienici”. In giro c’è anche chi propone un altro orizzonte. questo è l’orizzonte che ci appartiene

LA MARCIA CONTINUA
di Barack Obama

È un raro onore nella vita poter seguire uno dei tuoi eroi. E John Lewis è uno dei miei eroi. Mi viene da immaginarlo, adesso, quando – allora era molto giovane – John Lewis si svegliò quella mattina di cinquant’anni fa e si diresse verso Brown Chapel.

L’eroismo non era nella sua mente. Una giornata così non era sulla sua mente. Un brulicare di giovani con sacchi a pelo e zaini. Veterani del movimento che addestravano le nuove leve nelle tattiche della non violenza; il modo giusto per proteggersi quando si è attaccati. Un medico descriveva ciò che i lacrimogenifanno al corpo, mentre i manifestanti si appuntavano alla meglio istruzioni su come contattare i loro cari. L’aria era densa di dubbio, di apprensione e di paura. Trovavano conforto nel verso finale del canto finale che cantavano: “Non importa quale potrà essere la prova, Dio si prenderà cura di te; appoggia la tua stanchezza sul Suo petto, Dio si prenderà cura di te”. Poi, una mela nello zaino, e uno spazzolino da denti, un libro di diritto – tutto ciò che serve per una notte dietro le sbarre – John Lewis li condusse fuori dalla chiesa in una missione per cambiare l’America.

Presidente Bush e signora Bush, governatore Bentley, membri del Congresso, sindaco Evans, reverendo Strong, amici e concittadini americani: Ci sono luoghi, e momenti in America, in cui si è deciso il destino di questa nazione. Molti sono siti di guerra – Concord e Lexington, Appomattox e Gettysburg. Altri sono siti che simboleggiano l’audacia del carattere dell’America – Independence Hall e Seneca Falls, Kitty Hawk e Cape Canaveral. Selma è uno di questi luoghi.

In un pomeriggio di cinquant’anni fa, quanto della nostra storia turbolenta – la macchia della schiavitù e l’angoscia della guerra civile; il giogo della segregazione e la tirannia di Jim Crow; la morte di quattro bambine aBirmingham, e il sogno di un predicatore battista – si ritrovò su questo ponte.
Non fu uno scontro di eserciti, ma uno scontro di volontà; un confronto per determinare il significato dell’America.

E a causa di uomini e donne come John Lewis, Joseph Lowery, Hosea Williams, Amelia Boynton, Diane Nash, Ralph Abernathy, CT Vivian, Andrew Young, Fred Shuttlesworth, Martin Luther King, e tanti altri ancora, l’idea di un’America, giusta, un’America inclusiva, un’America generosa – quell’idea che alla fine ha trionfato.
Come è vero in tutto il panorama della storia americana, non possiamo esaminare questo momento isolato dagli altri. La marcia su Selma fu parte di una campagna più ampia che ha attraversato generazioni; i leader di quel giorno sono parte di una lunga serie di eroi.

Ci riuniamo qui per celebrarli. Ci riuniamo qui per onorare il coraggio di americani comuni disposti a sopportare manganellate e staffilate; gas lacrimogeni e cariche a cavallo; uomini e donne che, nonostante il fiotto di sangue e l’osso scheggiato rimasero fedeli alla loro stella polare continuando la marcia verso la giustizia.
Assunsero come insegna la Scrittura: “Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera” E nei giorni a venire, tornarono, e tornarono ancora. Quando la tromba suonava perché altri ancora si unissero a loro, il popolo arrivò – bianchi e neri, giovani e anziani, cristiani ed ebrei – sventolando la bandiera americana e cantando gli stessi inni pieni di fede e di speranza. Un giornalista bianco, Bill Plante, che allora faceva reportage sulle marce e che è qui con noi oggi, scherzava dicendo che via via che cresceva il numero dei bianchi, s’abbassava la qualità del canto. A quelli che marciavano, però, quelle vecchie canzoni gospel non dovevano essere mai risuonate così dolci.

Con il tempo, il loro coro avrebbe raggiunto il presidente Johnson . E avrebbe inviato loro una protezione, riecheggiando il loro appello alla nazione e al mondo perché ascoltassero: “We shall overcome“.

Che fede enorme avevano questi uomini e queste donne. Fede in Dio – ma anche fede nell’America.
Gli americani che attraversarono questo ponte non erano fisicamente imponenti. Ma diedero coraggio a milioni di persone. Non avevano alcun mandato elettivo. Ma guidarono una nazione. Marciavano come americani che avevano sopportato centinaia di anni di brutale violenza, e innumerevoli umiliazioni quotidiane – ma non cercavano un trattamento speciale, solo la parità di trattamento promessa loro quasi un secolo prima.
Quello che fecero qui si riverbererà nei secoli. Non perché il cambiamento che ottennero fosse preordinato; non perché la loro vittoria fosse completa; ma perché dimostrarono che il cambiamento non violento è possibile; che l’amore e la speranza possono vincere sull’odio.

Mentre commemoriamo quanto realizzarono allora, non possiamo dimenticare che, al tempo delle marce, molti al potere le condannavano più che lodarle. Allora, erano chiamati comunisti, meticci, agitatori venuti da fuori, degenerati sessuali e morali, e peggio ancora – tutto tranne il nome che avevano avuto dai loro genitori La loro fede è stata messa in discussione. Le loro vite minacciate. Il loro patriottismo contestato.
Eppure, cosa poteva esserci di più americano di quello che accadde in questo luogo?

Cosa potrebbe più profondamente rivendicare l’idea dell’America che persone semplici e umili – gente comune, gli oppressi, i sognatori non di alto rango, nati non per diventar ricchi o privilegiati, non di una sola tradizione religiosa, ma di tante – che convergono per dare forma al corso del loro paese?
Quale più grande espressione di fede nell’esperimento americano di questa; quale più grande forma di patriottismo; più della convinzione che l’America non è ancora finita, che siamo abbastanza forti da essere autocritici, che ogni generazione successiva possa guardare alle nostre imperfezioni e decidere che è in nostro potere rifare questa nazione perché s’allinei sempre più vicino ai nostri ideali più alti?
Ecco perché Selma non è un’estraneità rispetto all’esperienza americana. Ecco perché non è un museo o un monumento statico da contemplare da lontano. È invece la manifestazione di un credo scritto nei nostri documenti fondanti:

“Noi, il popolo degli Stati Uniti, al fine di perfezionare la nostra Unione…,
“Noi riteniamo queste verità autoevidenti, che tutti gli uomini sono stati creati uguali”

Non sono solo parole. Sono una cosa viva, un invito all’azione, un percorso di cittadinanza e un’insistenza nella capacità di uomini e donne liberi di plasmare il nostro proprio destino. Per i padri fondatori come Franklin e Jefferson, per leader come Lincoln e FDR, il successo del nostro esperimento di autogoverno riposava nel coinvolgimento di tutti i cittadini in questo lavoro. Questo è ciò che celebriamo qui a Selma. È tutto questo, quel movimento, un passo nel nostro lungo cammino verso la libertà.
L’istinto americano che portò questi giovani uomini e donne a prendere in mano la torcia e ad attraversare questo ponte è lo stesso istinto che spingeva i patrioti a scegliere la rivoluzione non la tirannia. È lo stesso istinto che ha attirato gli immigrati che hanno attraversato gli oceani e il Rio Grande; lo stesso istinto che portò le donne a conquistare il voto e i lavoratori a organizzarsi contro un ingiusto status quo; lo stesso istinto che ci portò a piantare una bandiera a Iwo Jima e sulla superficie della Luna.

È l’idea tenuta da generazioni di cittadini che hanno creduto che l’America sia un costante lavoro in progressione; che hanno creduto che amare questo paese richieda ben più che cantarne le lodi o evitare scomode verità. Richiede la rottura, talvolta, la disponibilità a battersi ad alta voce per ciò che è giusto e scuotere lo status quo.

Questo è ciò che ci rende unici, e cementa la nostra reputazione di faro di opportunità. I giovani che stanno dietro la cortina di ferro avrebbero visto Selma e, alla fine abbattuto un muro. I giovani di Soweto avrebbero sentito Bobby Kennedy parlare di barlumi di speranza e alla fine sarebbe stato messo al bando il flagello dell’apartheid. I giovani in Birmania sono andati in prigione, piuttosto che sottostare al governo dei militari. Dalle strade di Tunisi a Maidan in Ucraina, questa generazione di giovani può trarre forza da questo luogo, dove gente senza potere potè cambiare la più grande superpotenza del mondo, e spingere i loro leader ad ampliare i confini della libertà.

Hanno visto quell’idea diventare realtà a Selma, Alabama. L’hanno vista diventare realtà in America.
In seguito a campagne così, fu approvato il Voting Rights Act . Barriere politiche, economiche, sociali sono state buttate giù, e il cambiamento che questi uomini e donne hanno prodotto è visibile qui oggi nella presenza di africano-americani che guidano consigli d’amministrazione, che siedono in parlamento, che occupano cariche elettive dai piccoli centri alle grandi città; dal Congressional Black Caucus allo Studio ovale. I latinos sono passati attraverso quelle porte. Gli asiatico-americani, i gay americani, e gli americani con disabilità sono passati attraverso quelle porte. I loro sforzi hanno dato a tutto il Sud la possibilità di rialzarsi, non riaffermando il passato, ma trascendendo il passato.
A causa di quello che hanno fatto loro, le porte delle opportunità si sono aperte no

Che cosa gloriosa, avrebbe detto King.
Che debito solenne abbiamo con lui.
Il che ci porta a chiederci: come potremo ripagare questo debito?
In primo luogo, dobbiamo riconoscere che non basta la commemorazione di un giorno, non importa quanto speciale. Se Selma ci ha insegnato qualcosa, è che il nostro lavoro non è mai compiuto – l’esperimento americano di auto-governo dà da fare e dà uno scopo a ogni generazione.

Selma c’insegna, anche, che l’azione richiede che ci liberiamo del nostro cinismo. Perché quando si vuole il perseguimento della giustizia, non possiamo permetterci né compiacimento, né disperazione.
Proprio questa settimana, mi è stato chiesto se pensassi se il rapporto del Dipartimento di giustizia su Ferguson dimostri che, rispetto alla razza, poco è cambiato in questo Paese. Capisco la domanda, dal momento che la “narrazione” del rapporto è tristemente familiare. Esso evoca la forma di abuso e di disprezzo per i cittadini che diede origine al movimento dei diritti civili. Ma respingo l’idea che nulla sia cambiato. Quel che è successo aFerguson può anche non essere un fatto isolato, ma non è più endemico, o consentito dalla legge e dal costume; e prima del movimento dei diritti civili, lo era, eccome.

Faremmo un cattivo servizio alla causa della giustizia lasciando intendere che pregiudizi e discriminazione siano immutabili, o che la divisione razziale sia inerente all’America. Se pensate che nulla sia cambiato negli ultimi cinquant’anni, chiedete a qualcuno che visse nella Selma o nella Chicago o nella Los Angeles degli anni Cinquanta. Chiedi all’amministratore delegato donna che una volta sarebbe stata assegnata allo staff di segreteria se nulla è cambiato. Chiedi al tuo amico gay, se sia più facile esserlo a viso aperto ed esserne orgogliosi nell’America d’oggi di quanto non fosse trent’anni fa. Negare questo progresso – il nostro progresso – sarebbe derubare noi stessi del nostro agire; della nostra responsabilità di fare tutto il possibile per rendere l’America migliore.

Certo, l’errore più comune è quello di far intendere che il razzismo sia stato tolto di mezzo, che il lavoro che portò uomini e donne a Selma sia stato completato, e che qualsiasi siano le tensioni razziali che restano esse siano una conseguenza di coloro che cercano di giocare la “carta della razza” per i loro scopi. Non abbiamo bisogno del rapporto su Ferguson per sapere che non è vero. Abbiamo solo bisogno di aprire gli occhi, e le orecchie, e il cuore, sapere che la storia razziale di questa nazione getta ancora la sua lunga ombra su di noi. Sappiamo che la marcia non è ancora finita, la corsa non è ancora vinta, e che il raggiungimento di tale meta benedetta dove si è giudicati in base al contenuto del nostro carattere, richiede che lo si ammetta.

“Siamo in grado di sopportare un grande peso”, ha scritto James Baldwin , “una volta che scopriamo che quel peso è realtà e arriviamo dove la realtà è.”

Questo è un lavoro per tutti gli americani, non solo per alcuni. Non solo per i bianchi. Non solo per i neri. Se vogliamo onorare il coraggio di coloro che marciarono quel giorno, allora tutti noi siamo chiamati a far propria la loro immaginazione morale. Tutti noi avremo bisogno di sentire, come fecero loro, l’urgenza appassionata dell’adesso. Tutti noi abbiamo bisogno di riconoscere, come fecero loro, che il cambiamento dipende dalle nostre azioni, dai nostri atteggiamenti, dalle cose che insegniamo ai nostri figli. E se facciamo questo sforzo, non importa quanto difficile possa sembrare, le leggi possono essere approvate, e le coscienze possono essere smosse, e si può costruire il consenso.

Con un simile impegnopossiamo far sì che il nostro sistema di giustizia penale serva tutti e non solo alcuni. Insieme, saremo in grado di elevare il livello di fiducia reciproca su cui si basa l’azione di polizia – l’idea che gli agenti di polizia sono membri delle comunità per proteggere le quali rischiano la vita, e i cittadini di Ferguson, New York Clevelandsemplicemente vogliono la stessa cosa per la quale i giovani marciarono qui – la protezione della legge.

Insieme, saremo in grado di affrontare la condanna ingiusta, le carceri sovraffollate, e le circostanze asfittiche che rubano a troppi ragazzi la possibilità di diventare uomini, e rubano alla nazione troppi uomini che potrebbero essere bravi padri, lavoratori, vicini di casa.

Sforzandoci saremo in grado di combattere la povertà e i blocchi che ostruiscono i percorsi di opportunità. Gli americani non accettano il biglietto gratis per chiunque, né crediamo che i risultati siano tutti uguali. Ma ci aspettiamo pari opportunità, e se lo diciamo sul serio, se siamo disposti a sacrificarci per questo, possiamo fare in modo che ogni bambino riceva una formazione adeguata a questo nuovo secolo, che espanda l’immaginazione e faccia alzare gli occhi e dia loro le necessarie competenze. Possiamo fare in modo che ogni persona disposta a lavorare abbia la dignità di un lavoro, e un salario equo, abbia voce in capitolo, e pioli più robusti sulla scala che porta su alla classe media.

E sforzandoci ancora, saremo in grado di proteggere le fondamenta della nostra democrazia per la quale tanti marciarono attraverso questo ponte – ed è il diritto di voto. In questo momento, nel 2015, cinquant’anni dopo Selma, ci sono leggi in tutto il paese fatte apposta per rendere più difficile per la gente andare a votare. Mentre parliamo, altre leggi così vengono proposte. Nel frattempo, il Voting Rights Act, il culmine di tanto sangue e sudore e lacrime, il prodotto di tanto sacrificio di fronte alla violenza sfrenata, si trova indebolito, il suo futuro è vittima di rancore partigiano.

Come può essere? Il Voting Rights Act è stato uno dei massimi successi della nostra democrazia, il risultato dello sforzo congiunto repubblicano e democratico. Il presidente Reagan ne firmò il rinnovo, quando era in carica. Il presidente Bush firmò il suo rinnovo, quando era in carica. Un centinaio di membri del Congresso sono venuti qui oggi per onorare le persone che erano disposte a morire per il diritto che tutela. Se vogliamo onorare questa giornata, fate sì che questi cento parlamentari tornino a Washington, e ne riuniscano altri quattrocento, e insieme, s’impegnino a farne la loro missione il ripristino della legge quest’anno.

Naturalmente, la nostra democrazia non è compito del solo Congresso, o solo dei tribunali, o solo del Presidente. Se ogni nuova legge di soppressione degli elettori fosse annullata oggi, avremmo ancora uno dei tassi più bassi di voto tra i popoli liberi. Cinquant’anni fa, la registrazione per votare qui a Selma e in gran parte del Sud era come indovinare il numero di giuggiole in un barattolo o le bolle di una saponetta. Significava rischiare la dignità, e, a volte, la vita. Qual è la nostra scusa oggi per non votare? Come facciamo con tanta disinvoltura a scartare il diritto per il quale tanti hanno combattuto? Come facciamo a dar via del tutto il nostro potere, la nostra voce, nel plasmare il futuro dell’America?

Cari amici che marciaste allora, quanto è cambiato in cinquant’anni. Abbiamo sopportato la guerra, e costruito la pace. Abbiamo visto meraviglie tecnologiche che toccano ogni aspetto della nostra vita, e diamo per scontate comodità che i nostri genitori non avrebbero neppure potuto immaginare. Ma ciò che non è cambiato è l’imperativo della cittadinanza, quella volontà di un diacono di 26 anni, o di un ministro della chiesa Unitaria, o di una giovane madre di cinque figli, da decidere di amare talmente questo paese da rischiare tutto per realizzare la sua promessa.

Questo è ciò che significa amare l’America. Questo è ciò che significa credere nell’America. Questo è ciò che significa quando diciamo che l’America è eccezionale.
Perché siamo nati dal cambiamento. Abbiamo rotto le vecchie aristocrazie, dichiarandoci titolari di diritti, non per discendenza di sangue, ma perché dotati dal Creatore di certi diritti inalienabili. Tuteliamo i nostri diritti e responsabilità attraverso un sistema di autogoverno, del, dal e per il popolo. Ecco perché discutiamo e ci confrontiamo con tanta passione e convinzione, perché sappiamo che i nostri sforzi contano. Sappiamo che l’America è ciò che facciamo di essa.

Siamo Lewis, Clark e Sacajawea – pionieri che sfidarono l’ignoto, e sarebbero stati seguiti da contadini e minatori, imprenditori e imbonitori. Questo è il nostro spirito.
Siamo Sojourner Truth Fannie Lou Hamer, donne che potevano fare tanto quanto un qualsiasi uomo e anche di più; e siamo Susan B. Anthony, che scosse il sistema fino a quando la legge non riflettè quella verità. Questo è il nostro carattere.
Siamo gli immigrati arrivati clandestinamente in nave per raggiungere questi lidi, siamo le masse di popolo che bramano di respirare liberamente – i sopravvissuti all’Olocausto, i disertori sovietici, i Lost Boys del Sudan. Siamo i disperati pieni di speranza che attraversano il Rio Grande, perché vogliono che i loro figli conoscano una vita migliore. Ecco come siamo arrivati a essere quel che siamo.
Siamo gli schiavi che costruirono la Casa Bianca e l’economia del Sud. Siamo gli stallieri dei ranch e i cowboy che aprirono la strada al West, gli innumerevoli operai che posero le rotaie ed eressero i grattacieli, e che si organizzarono per i diritti dei lavoratori.
Siamo gli imberbi soldati che combatterono per liberare un continente, e noi siamo i Tuskeegee Airmen, siamo i decrittatori Navajo, e i nippo-americaniche combatterono per questo paese anche se la propria libertà fu loro negata. Siamo i vigili del fuoco accorsi in quegli edifici l’11 settembre, e i volontari che si sono arruolati per combattere in Afghanistan e in Iraq.

Noi siamo i gay americani, il loro sangue scorreva per le strade di San Francisco e di New York, così come il sangue scorreva giù per questo ponte.
Siamo i narratori, gli scrittori, i poeti e gli artisti che aborrono l’ingiustizia, e disprezzano l’ipocrisia, danno voce a chi non ha voce, e raccontano verità che devono essere raccontate.
Siamo gli inventori del gospel e del jazz e del blues, del bluegrass e della country, dell’ hip-hop e del rock ‘n’ roll, i nostri stessi suoni con tutto il dolce dolore e la gioia sfrenata della libertà.
Siamo Jackie Robinson, quanto disprezzo nei suoi confronti e palle [baseball] scagliate dritte contro la sua testa, eppure quante home rubate nella World Series.

Noi siamo il popolo che, come ha scritto Langston Hughes, “costruisce i nostri templi per domani, forti come sappiamo.”
Noi siamo il popolo che, come ha scritto Emerson, “per il bene della verità e dell’onore sta con la schiena dritta e soffre a lungo”, siamo gente che “non si stanca mai, finché possiamo vedere abbastanza lontano.”

Ecco che cos’è l’America. Non è uno stock di foto, non è storia nebulizzata o deboli tentativi di definire alcuni di noi come più americani di altri. Rispettiamo il passato, ma non ci struggiamo per il passato. Non temiamo il futuro; vogliamo afferrarlo. L’America non è un qualcosa di fragile; siamo grandi, nelle parole di Whitman, conteniamo moltitudini. Siamo vivaci, un popolo variegato e pieno di energia, perennemente giovane nello spirito. Ecco perché qualcuno come John Lewis all’età matura di 25 anni poteva guidare una possente marcia.

Ed è quello che i giovani qui oggi e in ascolto in tutto il paese devono prendere da questo giorno. Tu sei l’America. Non vincolato da abitudini e convenzioni. Libero dall’impaccio di quel che è, e pronto a cogliere ciò che dovrebbe essere. Perché ovunque in questo paese, ci sono i primi passi da intraprendere, e nuovi percorsi da battere, e ponti da attraversare. E sei tu, giovane e senza paura nel cuore, la generazione più plurale e istruita nella nostra storia, che la nazione è in attesa di seguire.

Perché Selma ci mostra che l’America non è il progetto di una sola persona.
Perché la parola più potente nella nostra democrazia è la parola, “we”, “noi”.We The People. We Shall Overcome. Yes We Can. Non è proprietà di nessuno. Appartiene a tutti. Oh, che glorioso compito ci è dato, cercare continuamente di migliorare questa grande nostra nazione.
A cinquant’anni dal Bloody Sunday (Domenica di Sangue), la nostra marcia non è ancora finita. Ma ci siamo vicini. A 239 anni dalla fondazione di questa nazione, la nostra unione non è ancora perfetta. Ma ci siamo vicini. Il nostro lavoro è più facile, perché qualcuno ci ha già portato oltre quel primo miglio. Qualcuno ci ha già fatto passare attraverso quel ponte. Quando la strada si farà troppo dura, quando la torcia che ci è stata passata sembrerà troppo pesante, ci ricorderemo di questi primi viaggiatori, trarremo forza dal loro esempio, e ci atterremo saldamente alle parole del profeta Isaia:
“Quelli che sperano nell’Eterno acquistan nuove forze, s’alzano a volo come aquile; corrono e non si stancano, camminano e non s’affaticano”

Onoriamo coloro che hanno camminato cosicché noi potessimo correre. Dobbiamo correre così i nostri figli voleranno. Non ci stancheremo. Perché crediamo nel potere di un Dio eccelso, e crediamo nella sacra promessa di questo Paese.
Possa Egli benedire quei guerrieri della giustizia non più con noi, e benedica gli Stati Uniti d’America.

n solo per gli africano-americani, ma per ogni americano. Le donne hanno marciato attraverso quelle porte.

mar 092015
 
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Caro ex Sindaco Mario Cantini, leggo sulla Gazzetta la sua replica sulla questione “soldi percepiti indebitamente”.

Penso concorderà su un aspetto fondamentale della vicenda: i cittadini di Fidenza hanno già pagato per lei e la sua Giunta la maggiorazione dell’emolumento, protrattasi per alcuni anni su vostra precisa scelta.

Quindi, del suo ragionamento sulla Gazzetta non mi torna, principalmente, una cosa: da un lato dice che vi eravate già impegnati a restituire quei soldi (tre anni fa, glielo ricordo), ma poco dopo aggiunge che prima si rivolgerà a “qualsiasi sede” per “rappresentare le ragioni giuridiche che sostengono la legittimità del nostro operato”. Tradotto senza burocratese, significa avvocati e tribunali, quindi altri soldi che farete spendere ai fidentini se il Comune si dovrà impegnare in una questione legale sul tema.

In verità non mi sarei aspettato che un oratore brillante come lei si riparasse dietro alla più scontata e banale delle difese: la nuova Amministrazione vuole creare un polverone per distogliere l’attenzione da altri problemi. Se problemi vi sono, lei li conosce bene, avendoli lasciati lì irrisolti sul tavolo 9 mesi fa. E questo non toglie che avete “deliberatamente” deciso di alzarvi lo stipendio del 10% nel momento clou della crisi economica.

Guardi, non so per lei, ma riportare nelle casse del Comune soldi “indebitamente percepiti” mi pare già un’azione meritevole, senza scomodare altre scuse.

Il sindaco Massari non ha inventato nulla. Ha solo fatto applicare quanto richiesto dagli ispettori del Ministero ben 2 anni fa.
Mancano all’appello 33mila euro circa relativi agli ex amministratori. O li restituisce chi li ha presi prima, o li devono mettere i fidentini.

Quando lei diventò Sindaco, le venne applicato lo stipendio ridotto del 10%, proprio come era stato fatto per il sindaco Cerri e la sua Giunta. Siamo al 16 luglio 2009 (determinazione n.752). Avesse mantenuto questo parametro, oggi staremmo parlando d’altro.
Meno di un mese dopo, il 13 agosto, al contrario, la Giunta guidata da lei decide di eliminare quel risparmio e di tornare al massimo dello stipendio.

A prescindere dalla normativa che vi imponeva un emolumento più basso, le segnalo anche una questione di opportunità: invece che promuovere il modello low cost di Fidenza, trasformandolo in una cosa che avrebbe fatto piacere ai cittadini, avete preferito dire che pochi erano virtuosi come Fidenza, quindi palla al centro, alzare di nuovo lo stipendio.

Nel momento più delicato dell’economia mondiale degli ultimi 80 anni.

Fatto sta che nel 2012, delibera della sua Giunta n. 72 del 3 maggio, siete costretti a tagliarvi la paga ma, al momento di definire la restituzione dei soldini, tirate in mezzo l’Anci, autrice di richieste di chiarimento al governo nazionale. Tre anni dopo siamo ancora qua ad aspettare, caro Cantini.

E attaccarsi all’Anci in una materia così, è come dire che a dirigere Juve-Roma chiamiamo un arbitro da pallanuoto. Perché? Perché la deliberazione n.1 della Corte dei Conti in Sezioni Riunite in sede di controllo – il supremo organo della magistratura contabile, il vero arbitro del match, così ci capiamo – ha confermato a cavallo del 2012 che il 10% in più di stipendio che vi siete attribuiti non era legittimo. Punto.

Ribadisco, nella vita si può sbagliare, basta porre rimedio. Ecco perché, Cantini, la prescrizione a noi non interessa. Fidenza merita risposte veloci e chiare, provare ad allungare il brodo per evitare di prendersi le proprie responsabilità non è bello. Per nessuno.

Buona Domenica.

gen 282015
 
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di Andrea Massari, Sindaco

In questa sala consiliare, in questa seduta straordinaria e monotematica di una libera Assemblea democratica, sento l’emozione di essere riuniti esattamente 70 anni dopo l’ingresso dei soldati dell’Armata Rossa nel campo di Auschwitz. 70 anni in cui il mondo libero ha dovuto confrontarsi con l’Orrore e le sue cause e imparare ad attribuire un significato vero alla parola “memoria”.

Una memoria da custodire anche nel nostro territorio e nella nostra provincia, perché nel nostro territorio e nella nostra provincia gli ebrei e i dissidenti anti fascisti hanno subito le stesse malversazioni, le stesse crudeltà viste in tutto il Paese.

Con la promulgazione delle leggi razziali anche gli ebrei di Parma furono allontanati dalle scuole pubbliche, dalle università, dagli impieghi statali, dagli incarichi politici; fu loro vietato di esercitare ogni libera professione, di possedere beni mobili e immobili, di assumere domestici “ariani”.

Scrive l’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Parma:  “Il “Corriere Emiliano”, in un articolo del 13 ottobre, dava notizia dell’espulsione dall’Università di Parma di quattro professori ebrei. Alcuni studenti furono costretti a trasferirsi alla scuola ebraica di Milano. Cinque giorni dopo l’entrata in guerra dell’Italia, il Ministero dell’Interno disponeva il rastrellamento degli ebrei stranieri, ordinandone l’internamento in campi di concentramento o il confino in numerose località italiane.
La deportazione dai territori occupati colpì intere famiglie di ebrei polacchi, ungheresi, olandesi, austriaci, tedeschi, serbi e croati che, fuggiti dai luoghi controllati dai nazisti o dagli ustascia, avevano cercato rifugio nelle zone italiane. Un numero imprecisato di loro venne confinato anche in una ventina di comuni del Parmense, dove la popolazione locale fu generalmente ospitale nei loro confronti. Con l’occupazione tedesca e la costituzione della Repubblica sociale italiana anche gli israeliti di nazionalità italiana dovevano essere inviati in campi di concentramento e tutti i loro beni confiscati a favore della Rsi. Con l’ordinanza di polizia del 3 dicembre 1943, il capo della Provincia di Parma disponeva che la Cassa di Risparmio si occupasse del ritiro e della gestione del denaro e dei valori degli israeliti locali sotto il controllo dell’Intendenza di Finanza cittadina. Intanto, per l’internamento degli ebrei venivano utilizzati i seguenti campi: il castello di Scipione (Salsomaggiore Terme); il campo ubicato nel castello di Montechiarugolo; gli albergo “Terme” a Monticelli Terme”.

Studi che ho voluto condividere con voi, perché spiegano bene come il mondo in guerra conobbe, anche nei suoi angoli più remoti, l’Orrore pianificato, perfezionato e portato avanti con meticolosità da persone “terribilmente normali”, come ha scritto Hanna Arendt nel suo celebre libro, “La banalità del male”.

L’Olocausto, la strage degli innocenti catturati, deportati e ammazzati per la loro religione, la loro etnia, le loro preferenze sessuali, il loro credo anti nazista e anti fascista, per il loro rifiuto di continuare a servire sotto le armi dei dittatori – come ha raccontato magistralmente anche il nostro Giovannino Guareschi –, non è stato solo affare di gruppi dirigenti su cui scaricare comodamente le responsabilità, ma un fenomeno degenerato cui molti hanno assistito impotenti, molti altri hanno reagito a costo della loro vita ma su cui troppi hanno garantito per anni un silenzio funzionale.

Archetipo perfetto di questa storia è la figura – “terribilmente normale” e “banale”– di Adolf Eichmann, l’organizzatore metodico e razionale dello sterminio e della sua logistica, perfezionista che ha seguito la programmazione dei rastrellamenti e della consegna dei prigionieri direttamente sulle soglie dei cancelli che motteggiavano sul “lavoro che rende liberi”. Processato in Israele rispose come tanti altri prima di lui davanti al Tribunale Alleato di Norimberga: “Tutti ordinavano ed io eseguivo, ecco la mia colpa, eseguivo gli ordini come un vero soldato”.

Una frase che è il manifesto ideologico di quel sonno della ragione che ha devastato l’Europa nel corso del grande conflitto mondiale, iniziato ai primi del ’900 e di fatto risoltosi solo nel 1945.

Un sonno dal quale il mondo si riprese bruscamente alla fine del conflitto, sgomento. Come sgomenti e increduli erano i i volti dei cittadini tedeschi di Weimar, costretti dalle truppe americane a sfilare dentro al campo di concentramento di Buchenwald. Il campo dove, peraltro, si sperimentavano cure ormonali per l’omosessualità.

Fatti, storie, che ho voluto citare perché abbiamo il dovere di chiederci cosa lascia questa lunga sequenza di documenti, di cultura storica, di immagini. Quanto ci ha resi cittadini consapevoli conoscere e studiare l’Olocausto?
Lo chiedo perché il progressivo venir meno dei testimoni diretti di quel dramma mondiale ci pone, ancor più espressamente, di fronte all’obbligo di agire per liberare la memoria dalla plaude della ritualità, dell’atto dovuto. Della formalità.
Per difendere la “memoria”, anche, perché a 70 anni di distanza le vergogne revisioniste non sono venute meno. Anzi. Con sempre maggiore facilità si può leggere chi ritiene “presunte e pretese” le 6 milioni di vite stroncate nel nome della purezza della razza.

Lo hanno detto e scritto in tanti e io ci credo: possiamo affrontare e vincere la sfida della memoria chiedendoci non “cosa avrei fatto 70 anni fa, se fossi stato catturato perché ebreo o zingaro o omosessuale, o oppositore di Hitler e Mussolini”; dobbiamo chiederci, insieme alle nuove generazioni, soprattutto a loro, “cosa farei adesso”.

Adesso, sì. Perché nulla è più attuale della storia: il mondo ha vissuto l’Olocausto ma è passato negli stessi anni attraverso le foibe, la pulizia etnica durante la guerra nell’ex Jugoslavia; conosce la persecuzione dei cristiani, conosce l’efferatezza dei fondamentalismi, la proliferazione della corsa nucleare, la velocità con cui l’intolleranza e l’odio possono arrivare alla massima potenza, cioè alla follia omicida, scatenata il più delle volte contro minoranze inermi. Contro le donne, oggi come 70 anni fa.

Il mondo libero non può permettersi il lusso dell’inazione di fronte a quanto sta accadendo. Dialogo, mutuo soccorso per uno sviluppo solidale che non ricalchi i peggiori errori della nostra epoca, dovrebbero essere elementi condivisi in seno alla comunità internazionale, non solo parole, parole, parole. Ad esempio, non può essere un problema solo italiano la gestione dei flussi migratori che l’Europa non si decide ad affrontare con misure strutturali. Non può essere solo un problema turco la recrudescenza islamista conservatrice che peggiora ulteriormente la svolta democratica in un Paese chiave nei rapporti tra Est e Ovest. Così come non può essere solo un problema ucraino il rapporto con la Russia che ha rispolverato le sue pretese panegemoni in tutto l’Est europeo.

Ognuno di noi ha una responsabilità enorme, che è quella di dare concretezza a quel “je suis Charlie” che tutto il mondo ha esibito come un riscatto dopo il massacro di Parigi e che tutti siamo impegnati perché possa essere una ripartenza. La ripartenza dei diritti fondamentali e della necessità di saldare il nostro stare insieme su presupposti diversi, nei quali possano riconoscersi i popoli, non solo i governi e i gruppi dirigenti.

Per questo, chiudendo, lasciatemi leggervi questa frase, con l’auspicio che possa essere patrimonio collettivo di questo consiglio:

“Che la lezione di quegli episodi è semplice e alla portata di tutti. Sul piano politico, essi insegnano che sotto il terrore la maggioranza si sottomette, ma qualcuno no, così come la soluzione finale insegna che certe cose potevano accadere in quasi tutti i paesi, ma non accaddero in tutti. Sul piano umano, insegnano che se una cosa si può ragionevolmente pretendere, questa è che sul nostro pianeta resti un posto ove sia possibile l’umana convivenza”.

gen 282015
 
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di Alessandra Narseti

La legge n.211 del 20 luglio 2000 afferma: “la repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Aushwitz, “giorno della memoria”, al fine di ricordare la shoah, le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”.

Ecco, in realtà altri ebrei vennero uccisi nelle settimane seguenti, ma la data del 27 gennaio è stata giudicata più adatta di altre a simboleggiare la shoah e la sua fine. Oggi quindi, esattamente oggi, ricorre Il settantesimo anniversario dell’abbattimento dei cancelli del campo di concentramento di Aushwitz da parte delle truppe dell’armata rossa, cancelli dietro i quali i soldati trovarono un orrore inimmaginabile.

Particolarmente toccante la testimonianza di un soldato russo Yakov Vincenko, che al tempo dei fatti aveva solo 19 anni, e che tanti anni dopo racconta: “quel giorno ad Aushwitz è diventato centrale nella mia vita solo quando anche il mondo ha elaborato una coscienza della verità e della vergogna. Nemmeno noi, che abbiamo visto, ci volevamo credere. Ho sperato per anni di riuscire a dimenticare: poi ho capito che sarebbe stato comportarsi da colpevole, diventare complice. Così, ricordo. Non sono riuscito a comprendere come sia potuto succedere, ma a chi nega l’olocausto dico: credete a me che quando ero lì ho cercato di convincermi che non fosse vero” e continua “ho aperto le porte delle baracche, all’interno uomini moribondi pregavano, temevano li ammazzassi. Quando ho detto loro che erano liberi, non percepivo felicità. Li vedevo sollevati ma non avevano la forza per reggere la gioia”.

Bene, i cancelli di Aushwitz sono stati abbattuti, ma tanti altri cancelli rimangono ancora da abbattere: non si tratta più di cancelli fisici, ma di cancelli ideali fatti di pregiudizi e cementati dall’intolleranza, barriere tra le culture, tra le religioni, tra le diversità.

L’antisemitismo stesso, non è del tutto dietro le nostre spalle: forse non tutti sanno che il nostro paese detiene il triste primato delle ingiurie, insulti e messaggi di intolleranza antisemiti su internet ed è questo un dato confermato da un rapporto dell’agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali. E allargando lo sguardo all’Europa, emergono fatti ancora più drammatici: dalla strage alla scuola ebraica di Tolosa del 2012 in cui persero la vita un professore di religione e tre bambini, agli ultimi tragici fatti di cronaca che non occorre neanche ricordare tanto sono impressi nella memoria di tutti. Questo clima ha fatto sì che a Parigi si consigli agli ebrei di camminare in gruppo e mai soli e di portare sopra la kippah un cappello sportivo. Inoltre, metà delle famiglie ebraiche di Villepinte, sobborgo proletario a nord della capitale hanno lasciato il quartiere e la sinagoga locale, già incendiata nel 2011 ed e’aumentato esponenzialmente il numero di ebrei che hanno lasciato la Francia per far ritorno nello stato di Israele ( si parla di 7000 nel 2014 contro i 3500 del 2013). Tutto questo contrasta terribilmente con le libertà simbolo dell’Unione europea e testimonia più di ogni altra cosa come il ricordo del dramma della shoah non sia soltanto un formalismo, ma sia oltremodo necessario in una società che a volte sembra vacillare sul rispetto del prossimo. Insomma, i cancelli di Aushwitz sono stati abbattuti, ma tanti altri cancelli restano ancora da abbattere.

set 212013
 
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Ci sono passaggi in alcune delibere che passano inosservati ma che hanno un grande impatto sulla città. Facciamo l’esempio della delibera, presa nell’ultimo Consiglio Comunale, in cui si decide di riqualificare con pochi soldi il parcheggio Guernika. E’ chiaro che se si pensa ad una riqualificazione di quel parcheggio e non a raddoppiarlo in altezza e quindi in posti auto, si sceglie una strada del tutto diversa per il futuro del nostro centro storico rispetto a quella che le amministrazioni precedenti avevano pensato e a cui la stessa attuale amministrazione si era accodata sino a pochi mesi fa.

Che idea di città c’è, dietro alla scelta di non aumentare i posti auto a ridosso del centro, che idea di centro storico, che idea di rilancio, che idea di sostegno al commercio, che idea di città a misura d’uomo, che valorizzazione dei monumenti e in particolare del Teatro Magnani, se presumibilmente, il parcheggio antistante l’edificio, con questa scelta, non verrà mai tolto?

La nostra idea di centro parte dalla sua vivibilità, a misura di bambino, ciclista e pedone, bello da vedere, accogliente, comodo. I parcheggi e le auto che girano in tondo per trovare un posto libero con tutto questo non centrano nulla. I monumenti vanno valorizzati, il Municipio, il Teatro Magnani, il Duomo, le Orsoline e le auto parcheggiate tutto intorno, con la loro valorizzazione, non centrano nulla.

 

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 Posted by at 16:03
set 072013
 
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Esiste un muro da abbattere a Fidenza, non con la forza, non con i martelli ma con le idee. Si tratta di quel lamierone che circonda e nasconde lo spazio lasciato dell’ex Forno Comunale. Da tempo tutto tace su quell’area, sul suo futuro, sulla sua destinazione e nel frattempo il luogo non aiuta certo Fidenza a riprendersi ne visivamente ne moralmente. Si possono fare tante cose in quel luogo ma partiamo dall’obiettivo generale. Fidenza ha bisogno, per salvare il suo centro storico, di “riqualificarlo” come si diceva una volta, per i fidentini ma non solo. La chiusura dei negozi, lo svuotamento del centro, non si fermano rivolgendosi solo ai fidentini. Occorre rendere la nostra città, il nostro centro, attrattivo anche per chi viene da fuori. Deve tornare ad essere “la vasca” del territorio. Deve suscitare curiosità e ammirazione. Occorre il guizzo vincente che porti la nostra città al centro dell’attenzione.
La zona dell’ex Forno Comunale è confinante con gli ex licei o “casa del popolo” che si è deciso di vendere per intascare qualche soldino, pochi per la verità, soldini senza futuro, senza prospettiva. Un altra banca in centro pensiamo veramente che possa salvare Fidenza?

O forse occorre pensare ad altro?

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 Posted by at 14:21