mar 302010
 

Premesso

- che la legge 30 marzo 2004 n. 92 istituisce  il 10 febbraio “giorno del ricordo” in memoria delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata;
- che dal 2005 sempre si è celebrata tale giornata in questa sede;

alla luce delle seguenti considerazioni

Trattato di pace della II guerra mondiale
Il 10 febbraio 1947 fu firmato a Parigi il trattato di pace fra gli alleati e le ex potenze dell’Asse che mise la parola fine alla II guerra mondiale: l’Italia cedeva alla Jugoslavia vincitrice Fiume, il territorio di Zara, gran parte dell’Istria, del Carso triestino e goriziano e l’alta Val Isonzo. In questo territorio avevano convissuto pacificamente in passato diversi gruppi nazionali, almeno sino alla I guerra mondiale.

Le foibe
Al termine del II° conflitto mondiale, il I° maggio 1945 alle 9.30 la IV Armata Iugoslava entrava in Trieste e Gorizia dal confine orientale e occupava l’intera Istria precedendo la II Divisione Neozelandese giunta il 2 maggio.
Durante i 40 giorni di occupazione i partigiani comunisti jugoslavi perpetrarono il più grande massacro di cittadini italiani non impegnati in operazioni militari dell’intera storia nazionale.
Il massacro ebbe fine il 9 giugno quando Tito e il comandante dell’VIII armata britannica generale Alexander tracciarono la linea di demarcazione Morgan; essa prevedeva due zone di occupazione – la A e la B – dei territori goriziano e triestino, confermate poi dal Memorandum di Londra del ’54 (tale linea definisce ancor oggi il confine orientale d’Italia).
Per troppo tempo la tragedia delle foibe è rimasta sotto silenzio, non comparendo mai sui libri di testo dei nostri giovani né divenendo oggetto di dibattito storico, tanto che solo pochi oggi sanno; essa è stata motivo di contrapposizione politica tra destra e sinistra specie nell’immediato dopoguerra, momento di estrema debolezza politica italiana, e per tutto il periodo della guerra fredda, senza mai emergere e divenire una questione nazionale.
Non vi fu una diffusa condanna e ciò non è imputabile a un solo partito; furono le Istituzioni del nostro Paese che, dopo una guerra di aggressione persa, optarono per il silenzio poiché il ricordo si sarebbe esteso ai delitti italiani in Istria e  Dalmazia nel corso dei venti anni del fascismo dal 1922 al 1943.
La destra ha usato il dramma delle foibe per i propri rancori anti-slavi e anticomunisti e per screditare la Resistenza addebitandole la responsabilità di quanto avvenuto; la sinistra ha cercato di dimenticare la tragedia affinché non si parlasse delle responsabilità del comunismo; i moderati preferirono evitare lo scontro con Tito, all’epoca capo di uno stato “revisionista” non più allineato con l’URSS.
Non è possibile  capire i processi storici ragionando nell’ottica esclusiva delle singole storie nazionali che rimanderebbe all’infinito una riconciliazione per una convivenza civile tra i popoli dell’Unione Europea.
La Slovenia fa parte dal 2004 della U.E. e festeggia dal 2005 il 15 settembre, entrata in vigore del trattato di Parigi, come festa nazionale con la denominazione “Festa dell’unione del litorale con la madrepatria”.
Le violenze di massa nei confronti principalmente di italiani furono opera dei partigiani di Tito. Esse avvennero in due ondate, la prima nell’autunno del 1943 dopo l’8 settembre in seguito all’armistizio dell’Italia con gli Angloamericani, la seconda, di maggior entità e ferocia, nella primavera del 1945 alla fine del conflitto. Furono colpiti militari della ex RSI, appartenenti all’apparato di polizia, rappresentanti dello Stato Italiano e i temuti partigiani italiani; durante 40 giorni furono incarcerati e eliminati l’intero comitato di liberazione nazionale di Trieste, nonché autonomisti fiumani antifascisti e in generale gli italiani che potevano costituire un ostacolo alla slavizzazione forzata e all’annessione del Friuli Venezia Giulia alla Jugoslavia.
In definitiva vennero colpiti tutti coloro che non facevano parte dell’esercito di liberazione iugoslavo, anche gli antifascisti che avrebbero potuto mettere in discussione la pretesa di Tito di monopolio dell’antifascismo; riguardo quest’ultimo aspetto si può affermare che un movimento resistenziale rivoluzionario si stava trasformando in regime e ne fagocitava un altro. Secondo il Centro Studi Adriatici i morti furono 10.137 di cui 7000 infoibati. [N.B.: occorre ricordare che negli stessi giorni del ’45 avveniva in Slovenia nel bosco di Kocevije il massacro di 12.000 collaborazionisti slavi, domobranci (nazisti sloveni della difesa territoriale) e ustascia (fascisti cattolici croati). Le vittime totali del mattatoio balcanico dal ‘41 al ‘45 conseguenti alla guerra di aggressione italiana e alla contrapposizione fra partigiani comunisti, ustascia e cetnici (serbi monarchici ortodossi) furono circa 1.706.000].
La repressione anti-italiana fu attuata al semplice sospetto e nell’indifferenza per l’accertamento delle responsabilità personali, secondo modalità staliniste ormai presenti nella prassi degli organi di sicurezza dello stato iugoslavo appena costituito.
In queste zone durante le fasi finali del II° conflitto mondiale era in atto da parte dei titini una lotta che nel contempo poteva considerarsi  sia guerra di liberazione e di affermazione nazionale, sia guerra civile e rivoluzione; essa si affermò coi modi delle rivoluzioni, col bagno di sangue, sangue italiano poiché italiana era la metà della popolazione e la grande maggioranza degli abitanti dei centri urbani e perché italiana era l’ostilità al progetto di annessione alla Jugoslavia comunista.
Si stagliò il ruolo egemonico del partito comunista iugoslavo sul movimento resistenziale, partito che già nel ’42 aveva abbandonato le posizioni internazionaliste e si stava indirizzando verso un esasperato nazionalismo; esso non ammise nessun altro soggetto politico autonomo concorrente, da cui la divisione fra “i nostri” e gli “altri” che costituì il criterio guida delle politiche repressive nei confronti dei nemici del passato, gli occupatori, i nemici del presente, gli oppositori al movimento di liberazione, nonché i nemici del futuro, i soggetti che potevano diventare pericolosi per il consolidamento del regime comunista.

L’esodo
Dopo il Trattato di pace di Parigi del 10-02-1947 sino a fine anni ’50 circa 250.000 italiani, la metà degli abitanti dei territori interessati, abbandonarono le terre istriane stabilendosi nei campi profughi di tutta la penisola italiana. I profughi dell’Istria pagarono la sconfitta dell’Italia nella II guerra mondiale e le scelte dissennate del ventennio fascista.
Ciò comportò la scomparsa totale del gruppo nazionale italiano da alcune delle sue regioni di insediamento storico, spezzando una continuità che durava dall’epoca della romanizzazione.
Fu un esodo a tappe i cui picchi seguirono al Trattato di Pace di Parigi (’47) e al Memorandum d’Intesa di Londra (5-10-’54) sottoscritto dai governi di Italia, Regno Unito, Stati Uniti e Jugoslavia concernente il territorio libero di Trieste, coi quali furono decise le sorti della Venezia Giulia.
Gli esodi di massa e l’abbandono di ogni proprietà, non arrestabili nemmeno dalla dichiarazione italiana dell’impossibilità di accogliere simile moltitudine,  avvennero quando le popolazioni italiane furono ben consce che il potere iugoslavo era diventato definitivo e senza più speranza di cambiamento.
Da parte iugoslava non vennero promulgate leggi espulsive ma lo spaesamento, cioè il sentirsi straniero in patria, causato dall’elevatissima pressione ambientale, dalla paura delle foibe, dal sovvertimento delle gerarchie tradizionali (considerata la pregressa egemonia italiana), dalla perdita di punti di riferimento culturali importanti come gli insegnanti e i sacerdoti, dal peggioramento delle condizioni di vita, dalla necessità di servirsi di una nuova lingua, dalla constatazione dell’impossibilità di mantenere la propria identità nazionale nelle condizioni offerte dallo stato iugoslavo, indussero la maggior parte della popolazione italiana a scegliere l’Italia Repubblicana di De Gasperi.
Così si espresse con chiarezza nel 1967  Theodor Veiter: “La fuga degli Italiani secondo il moderno diritto dei profughi è da considerare una espulsione di massa. Colui che non fuggendo dalla propria terra, si troverebbe esposto a persecuzioni di natura personale o politica, etnica, religiosa o economica, o verrebbe costretto a vivere in un regime che lo rende senza patria nella propria patria d’origine, non compie volontariamente la scelta dell’emigrazione , ma è da considerarsi espulso dal proprio paese”.
Per comprendere ciò che è avvenuto bisogna contestualizzare storicamente la tragedia, non per giustificarla poiché nessun rancore storico o spirito di vendetta può giustificare ciò che avvenne e il modo in cui avvenne. Ugualmente non si può comprendere il bombardamento di Dresda del febbraio 1945 da parte degli Alleati (25.000 vittime civili) se non si conoscono i precedenti bombardamenti di Londra da parte della Luftwaffe; non si può comprendere Hiroshima e Nagasaki se non si conoscono gli antefatti (Pearl-Harbor e guerra nel Pacifico). Occorre sottolineare che la necessaria individuazione di contesti che spieghino gli accadimenti nulla toglie alla gravità e rilevanza di questi ultimi. Noi siamo qui oggi per onorare e ricordare le vittime, ma anche per identificare il male e condannarlo.

La I guerra mondiale
L’Italia vincitrice della I guerra mondiale (1918) concluse il processo di unificazione nazionale inglobando con l’annessione del gennaio 1921, dopo tre anni di occupazione militare, mezzo milione di slavi residenti in Venezia Giulia (i cosidetti “allogeni”- contrapposti agli autoctoni – erano composti secondo il censimento del 1910 da 327.000 sloveni e 152.000 croati). Queste terre assieme a Zara e al Sud-Tirolo (200.000 tedeschi) erano state promesse all’Italia col patto di Londra dell’aprile 1915 stipulato con gli alleati prima dell’entrata in guerra.

Il fascismo al confine orientale
Dopo la conquista del potere nel ’22 il fascismo si fece violenza di stato e ebbe l’obiettivo prioritario di distruggere l’identità nazionale delle popolazioni slovene e croate facenti ormai parte dello stato italiano dopo la vittoria del 1918.
La spirale di odio fu teorizzata da Mussolini nel 1920 in un discorso a Pola, quando ancora non era Duce: “Di fronte ad una razza come quella slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica dello zuccherino, ma quella del bastone”.
In primis si impedì l’uso pubblico delle lingue slovena e croata con l’abolizione della stampa slava, con la soppressione per mezzo della riforma Gentile nel ’23 dell’insegnamento in lingua slovena e croata, con la chiusura dei circoli culturali; la legge del 10 gennaio 1926 prevedeva che si dovevano “restituire” i cognomi in forma italiana e si affidò l’esecuzione pratica della norma emanata al Pnf (Partito nazionale fascista); alla fine del ’28 vennero dichiarati fuorilegge tutti i partiti politici e tutta la stampa periodica; iniziarono poi le persecuzioni nei confronti dei punti di riferimento per le comunità nazionali slovene e croate (preti, maestri, capi villaggio), si liquidò il tessuto cooperativo e creditizio slavo; la borghesia venne sostituita da uomini nuovi di provata fede italiana sia negli uffici pubblici che nelle professioni.
Lo stato dittatoriale si avvalse dei sistemi di polizia con innumerevoli provvedimenti di ammonizione e confino, carcerazioni, condanne a morte comminate dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato; venne creato “ad hoc” sul finire degli anni Venti l’Ispettorato speciale del Carso guidato dal fascista Emilio Grazioli per il controllo capillare dell’area periferica urbana; dopo la pacificazione tra regime e Chiesa con la firma del Concordato vennero allontanati nel 1931 l’arcivescovo di Gorizia Francesco Borgia Sedei e nel 1936 il vescovo di Trieste-Capodistria Luigi Fogar, rei di aver difeso il diritto degli sloveni e croati all’uso della loro lingua almeno nella sfera religiosa.
Il governo italiano il 14 agosto 1931 istituì l’Ente per la rinascita agraria delle Tre Venezie col compito di espropriare le terre in possesso degli “allogeni” e cederle ad agricoltori italiani ex combattenti della guerra 15-18 o a fascisti. Il regime, in sintesi, cercò di realizzare in Venezia Giulia un programma di distruzione integrale della identità nazionale slovena e croata.

La II guerra mondiale
Il 6 Aprile 1941 le forze dell’Asse aggredirono la Jugoslavia senza dichiarazione di guerra e la II Armata Italiana in pochi giorni giunse a Lubiana; la provincia di Lubiana, una parte della Dalmazia e il Montenegro furono annesse al Regno d’Italia; il 18 maggio Aimone di Savoia diventò re di Croazia con l’ustascia Ante Pavelic primo ministro.
La resistenza da parte della popolazione e del movimento partigiano indusse il nostro Stato Maggiore ad una violenta repressione: fucilazione di ostaggi, deportazione forzata dei familiari dei ribelli, distruzione di interi paesi. Il generale Mario Roatta comandante della II Armata Italiana in Slovenia e Dalmazia (Supersloda) aveva diramato nel marzo ’42 la Circolare 3C che dettava alle nostre truppe la condotta da seguire: “… il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato dalla formula dente per dente ma bensì da quella testa per dente”.  Mussolini così si rivolse alle nostre truppe in Montenegro comandate dal generale Pirzio Biroli: “So che siete buoni padri di famiglia, questo va bene a casa ma non qui; qui non sarete mai abbastanza ladri, assassini e stupratori”.
Nel solo territorio sloveno tra il giugno ’41 e il gennaio ’45 furono internate 70.000 persone su una popolazione di 360.000, di queste 15.000 persero la vita. Una moltitudine di prigionieri dell’ex esercito iugoslavo e civili, compresi donne, vecchi e bambini, arrestati durante le operazioni antipartigiane fu deportata nei 200 campi di internamento e lavoro costituiti nel 1941 in territorio italiano, sloveno e croato, gestiti dal Ministero dell’Interno e dal Regio Esercito, tra cui i principali: Gonars (comune in provincia di Udine in cui da documenti ufficiali ecclesiastici risultano reclusi nell’agosto ‘43 n.4503 persone in maggioranza donne e bambini), Arbe (Rab in Croato) con 4000 deceduti di stenti, Visco, Monito, Chiesanuova, Renicci, Ellera, Colfiorito, Pietrafitta, Tavernelle, Cairo Montenotte. Nel castello di Scipione di Salsomaggiore, gestito dal Ministero degli Interni, furono internati sino all’8 settembre ’43 numerosi civili iugoslavi deportati dalle loro terre. Ulteriori informazioni possono essere desunte sia dal documentario della BBC “Fascist legacy” trasmesso l’1 e 8 novembre del 1989 in Gran Bretagna, acquistato dalla RAI nel 1991 ma mai mandato in onda, sia dal libro “L’olocausto rimosso” della storico americano Michael Palumbo, edito da Rizzoli.Occorre inoltre ricordare i crimini nazisti quando quelle zone passarono dopo l’8 settembre 1943 all’amministrazione diretta del Reich con la denominazione “Adriatisches Kuestenland” (territorio del litorale adriatico).
La memoria va allora alla Risiera di San Sabba, unico campo di sterminio in Italia, e ai 72 ostaggi impiccati  in via Ghega a Trieste come rappresaglia a un attentato partigiano avvenuto a  Opicina. Ricordiamo i crimini degli ustascia del governo fascista collaborazionista di Ante Pavelic in Croazia: basti pensare al lager di Jasenovac (vicino Zagabria) ove trovarono la morte 500.000 serbi, 200.000 zingari e 32.000 Ebrei.

Considerando tutto ciò, il Consiglio Comunale di Fidenza

- esprime cordoglio per le vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata e dell’aggressione italiana alla Jugoslavia;

- condanna ogni tipo di violenza perpetrata in nome del nazionalismo;

- impegna la giunta a inviare l’ODG agli Istituti Scolastici Superiori di Fidenza.

Luigi Toscani
ltoscani@pdfidenza.it

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