mar 242011
 

I gravissimi tagli che la riforma Tremonti-Gelmini ha messo in atto hanno fatto parlare molto della scuola nei mesi scorsi, ma l’attacco di Berlusconi hadato il via a qualcosa di più profondo, che addirittura supera il problema dei 35 alunni per classe, degli 8milioni di euro tolti alla scuola e dei numerosissimi posti di lavoro tagliati.
La gravità di quelle affermazioni ha rianimato, come forse non era mai accaduto in passato, il senso di appartenenza di un popolo e la volontà di difendere un diritto acquisito e inviolabile.
Ciò che è accaduto genera infinito sconforto e fastidio, in un Paese che quest’anno festeggia i 150 anni della raggiunta Unità.
Se oggi ricordiamo il 1861 è perché in quell’anno qualcosa ha avuto inizio: hanno cominciato a prodursi i tratti distintivi della popolazione italiana, cioè il senso di cittadinanza attraverso l’uso di una lingua nazionale e all’acquisizione di una cultura unitaria e diffusa, e questo soprattutto  grazie alla costituzione del sistema scolastico statale.
Non che ciò abbia risolto in poco tempo le difficoltà che segnavano la vita quotidiana di un paese arretrato e in gran parte analfabeta, semmai il confronto tra i banchi di scuola (come avviene anche oggi) faceva apparire ancora più gravi limiti e diversità delle persone.
Nonostante questo, qualcosa stava cambiando: come la diffusione della conoscenza della lingua italiana e il modificarsi degli stili di vita quotidiana. Agli insegnanti era affidato non solo il compito di insegnare ai bambini a leggere, scrivere e fare di conto, ma anche ad avere cura del proprio corpo, a osservare importanti norme d’igiene quotidiana, a eseguire esercizi fisici.
Alla fine, lentamente, nel divario tra chi sosteneva che la popolazione destinata a svolgere attività subalterne non avesse bisogno di istruzione e i sostenitori della sua necessità, oltre che ai fini produttivi anche a quelli della vita sociale e politica, vinse questa seconda consapevolezza, che attraverso le scuole si sarebbe potuta ottenere una migliore qualità delle condizioni di vita per tutti.
Per questo è imbarazzante che, nell’anniversario dell’Unità d’Italia, questo Governo insista nel contrastare il ruolo della scuola, in particolare di quella statale con parole e con fatti (come la riforma Gelmini). Dimenticando, inoltre, che i programmi scolastici sono stabiliti dal Ministero e quindi dal Governo di cuiil Presidente del Consiglioè il vertice.

Furbescamente poi il Presidente del Consiglio ha tentato di “smarcarsi” dalla gaffe commessa sostenendo che anche quella privata/paritaria è una scuola pubblica.
A questo punto, però, bisogna intendersi sul significato di “pubblica”. Se si fa riferimento al fatto che la scuola è un servizio reso ai cittadini, allora si può dire che quella paritaria è pubblica, perché altrimenti la sostanziale differenza sta nel fatto che quella di Stato è appunto di “proprietà” degli alunni, perché è la scuola che si finanzia con le tasse, anche di chi manda i figli alla scuola privata o di chi figli non ne ha, perché è quella che non mette un tetto massimo agli alunni disabili o stranieri.
Facendo un certo sforzo di analisi, però, si potrebbe anche affermare che Berlusconi non si è completamente sbagliato quando ha detto che gli insegnanti “vogliono inculcare princìpi diversi da quelli che i genitori vogliono inculcare ai loro figli”. Forse l’ha detto con tono poco delicato, ma è proprio, anche, quello il compito della scuola pubblica: emanciparei ragazzi dai confini delle singole famiglie, “metterli al mondo”, immetterli nel mondo, creare cittadini. Ciò che possono fare le famiglie è di crescere membri di un gruppo ristretto, che non è male in sé, ma è una cosa limitante per un essere umano.
La scuola pubblica serve a creare individui autonomi, liberi, dotati di spirito critico in grado di mettere in discussione persino la propria stessa famiglia. Lo so che è un’affermazione difficile da accettare in un paese come l’Italia, ma è la realtà.
Nella scuola pubblica i bambini incontrano “l’altro” e con lui devono fare i conti, affrontano conquiste ed errori, diversi saperi e anche diverse ignoranze, che sono comunque fonte di apprendimento, perché la nostra società è divenuta inevitabilmente  più complessa e plurale nella sua composizione e non è più sufficiente la tolleranza. Oggi sono indispensabili istituzioni,come la scuola statale, capaci di produrre le condizioni personali e sociali del riconoscimento.
Mettere sullo stesso piano scuola pubblica e scuole paritarie annuncia il passaggio ad un sistema che produce scuole di “appartenenza” – cattoliche o musulmane, leghiste o meridionalizzate, per élites o per diseredati –. Si rischia così una società nella quale si è educati solo alla conoscenza dei propri simili.
Nessuno nega, anzi lo riconosce la Costituzione, che in un sistema “libero” (qui ci sta la parola libertà) debbano potersi inserire scuole paritarie, che adottino l’offerta e gli indirizzi ministeriali, affiancando poi modelli pedagogici e didattici anche nuovi e differenti.
Penso alla scuola dell’infanzia a Fidenza. Il Comune probabilmente non reggerebbe il carico senza le scuole paritarie e private (come quella Steineriana), ma la libertà sta proprio nel poter scegliere tra una buona scuola privata o una buona scuola pubblica e non nel rimpianto di un genitore di potersi permettere la privata, perché la pubblica non ha più ossigeno.

Concludendo.

Si impara prima, dopo e nonostante la scuola. Tuttavia la scuola statale deve esserci ed essere rispettata e finanziata.

Lorenzo Cherubini (in arte Jovanotti) ha scritto una frase che rende bene il senso finale dell’ordine del giorno: “la scuola di Stato è come l’acqua che arriva al rubinetto: poi ognuno può comprarsi l’acqua minerale che preferisce, ma guai a chi avvelena l’acqua del rubinetto per venderne di più minerale”.

Martina Canella
mcanella@pdfidenza.it

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